Messaggio 3 giugno 2011, 10:46

E fu la “Radio”

115 anni fa Guglielmo Marconi brevetta la sua radio. Ma per la paternità dell’invenzione non potrà mai smettere di lottare.

I cervelli in fuga non sono una novità dei nostri tempi. Lo era anche uno degli inventori italiani più conosciuti al mondo: Guglielmo Marconi. Appena ventenne, nella primavera del 1896, infatti, solcava la Manica in compagnia della madre per ottenere fondi per i suoi studi sulla trasmissione telegrafica senza fili.

Ma torniamo indietro di qualche anno. Secondo quanto si racconta, in una notte di dicembre del 1892, Guglielmo sveglia la madre e la conduce emozionato nella soffitta dove portava avanti i suoi esperimenti. Qui le mostrò che riusciva a far suonare un campanello elettrico su di un apparecchio ricevente (come quelli del telegrafo di Morse) posizionato all’estremità opposta della stanza, premendo un tasto telegrafico. Successivamente Marconi trasmette segnali a distanze sempre più ampie e ottiene l’interesse – e quindi i finanziamenti – del padre. Grazie ai nuovi mezzi economici e all’aiuto del fratello maggiore Alfonso e del maggiordomo, riesce a mettere insieme una strumentazione di emissione e ricezione più potente – inventando il sistema antenna-terra – e a spostare i suoi esperimenti all’aperto. Nell’estate del 1985 fa trillare il suo campanello prima a un chilometro di distanza, oltre la collina dietro villa Griffone (la casa paterna), e poi oltre i due chilometri. È in questa occasione che festeggia la riuscita del suo tentativo con il famoso colpo di fucile.

A questo punto della storia che si conferma il detto “ dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna”. In questo caso si tratta di Annie Jameson, cittadina britannica e madre di Guglielmo. Dopo che l’invenzione del figlio viene derisa dalle autorità italiane e in particolare dal ministero delle Poste, la donna scrive all’ambasciatore italiano a Londra chiedendo consiglio. La risposta è di portare immediatamente il giovane sull’isola, dove potrà brevettare le sue invenzioni e trovare facilmente finanziamenti per sviluppare applicazioni pratiche e commercializzabili. E così accade: nella primavera del 1896 Marconi, accompagnato dalla madre, arriva a Londra dove deposita diversi brevetti, tra cui quello definitivo per la radio il 2 giugno dello stesso anno. Tuttavia la paternità dell’invenzione fu presto messa in discussione.

In quegli anni, infatti, altri stavano lavorando alla trasmissione telegrafica senza fili, e il primo a sostenere – e probabilmente a dimostrare – la possibilità di sfruttare le onde elettromagnetiche per la trasmissione a distanza fu Nikola Tesla, inventore serbo di nascita, ma cittadino statunitense (lo stesso delle bobine in grado di generare i fulmini, lo stesso che ha dato il nome all’unità di misura dell’induzione magnetica, lo stesso della corrente alternata). Diversamente dai suoi avversari, però, che avevano una forte formazione accademica e che si concentravano prima sulla dimostrazione teorica delle proprie idee, Marconi era molto più pragmatico.
Andava avanti per sperimentazioni, anche appoggiandosi – come lui stesso riconosceva – ai risultati di altri scienziati, ed era sempre orientato a trovare un’applicazione pratica e commercializzabile. Come ricorda Ito De Rolandis in un articolo del 2009, se Marconi brevetta ogni scoperta e la converte in un’applicazione pratica commercializzabile è anche per restituire al padre il capitale prestato.

Se è vero che la teoria dietro alle sue invenzioni probabilmente non è tutta farina del suo sacco, è altrettanto vero però che il grande merito di Guglielmo Marconi è stato quello di mettere insieme tutti i pezzi in uno strumento unico e trovargli un’applicazione. A turno Tesla e Marconi si videro riconosciuta la paternità della radio: l’italiano nel 1911 la ebbe dalla High Court britannica; nel 1943 invece la Corte Suprema degli Stati Uniti diede la precedenza ai brevetti di Tesla, ma solo nel territorio Usa.

Questa battaglia amareggiava Marconi che sosteneva di non aver mai letto i lavori di Tesla, mentre riconosceva l’importanza per il suo lavoro delle opere di altri scienziati. L’inventore cercava di rimanere impassibile e non rispondere all’accusa di aver rubato invenzioni di altri. Solo una volta, riporta sempre De Rolandis, toccato nell’amor proprio durante un in un convegno all’ Accademia dei Lincei, disse: “ A Firenze tutti ammirano la cupola di Santa Maria del Fiore e in tale opera tutti ammirano il genio di Filippo Brunelleschi. Ma questo grande architetto non avrebbe mai realizzato la sua opera se non avesse utilizzato i mattoni di Pontassieve, i marmi di Carrara, le impalcature di mastro Alberico di Forlì, le corde di Narduccio il pisano. Raramente l’uomo dimostra riconoscenza e comprensione. Il Vasari non ci ha rivelato chi seccò al sole i mattoni, chi morì sotto i blocchi di marmo di Carrara, chi abbatté gli alti abeti impiegati nelle impalcature. I miei mattoni sono Rudolph Hertz, Augusto Righi”.

Fonte: http://daily.wired.it
IK0ZCW Alberto Devitofrancesco Presidente C.I.S.A.R. sezione di Roma IQ0HB
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